Alpinisti ciabattoni

Tramontava una splendida giornata. Un bel sole autunnale ponzava nell'aria tersa marosi iridescenti. Il treno filava via in mezzo a praterie fresche di verde smaltato; gli alberi projettavano le ombre allungate sui clivi, ed i loro pennacchi frondosi sforacchiati di raggi svettavano dolcemente nell'aria molle e fiammeggiante.
Dai prati falciati venivano raffiche ed effluvii salubri di erbe fresche, e lontano nello sprazzo solare, fra cumuli di fieno, si agitavano pennellate di cinabro le vivaci figurine delle rastrellatrici scintillanti nel loro corsetto bianco.
Più in giù sui cocuzzoli soffici delle collinette, ridevano al sole paeselli e casolari appiattati sul verde. Un villino erto sopra un poggio lontano in faccia al sole, rifrangeva dalle vetriate i purpurei bagliori di un incendio.
A volte il treno correva per lunghi tratti in mezzo a siepi folte di biancospino, piene di ombre fresche, e nel  fitto dei fogliami aggrovigliati  scintillavano in fantastica luminaria miriadi di foglioline trasparenti di sole, e tralci injettati di sanguigno.
Poi la siepe correva via veloce portandosi dietro gli occhi, e di nuovo si allargava, affondava l'ampio orizzonte, e prati e campi e alberi trionfanti nella gloria solare, e più lontano sorgevano nel cielo azzurrino montagne striate di praterie, di greppi arrosati dei più vaghi colori; culmini aurati di lucori crepuscolari, e balze e falde ampie già immergentesi nelle ombre turchiniccie.

[Achille Giovanni Cagna, Alpinisti ciabattoni, Amazon.co.uk, 2012, pag. 10]

Pseudolo

[Atto primo, scena quarta]

PSEUDOLO, solo

Adesso ch'egli se n'è andato, sei qua solo, Pseudolo. Ebbene, cosa intendi fare, dopo aver generosamente elargito promesse al tuo padroncino? Su che cosa si fondano quelle promesse? Non hai niente di pronto: neppure l'ombra d'un piano sicuro, né un tantino di denaro... - Né ho un'idea di quel che devo fare! - Non sai da che punto cominciare a ordire la tua tela, né sai con certezza dove finirai di tesserla... - Sì, ma come il poeta, prese le sue tavolette, cerca ciò che non esiste in nessuna parte del mondo, e tuttavia lo trova, riuscendo a rendere verosimile quel ch'è menzogna, così farò io: diverrò poeta, e le venti mine che attualmente non esistono in nessuna parte del mondo finirò col trovarle.

(vv. 394-405)

[Tito Maccio Plauto, Pseudolo, BUR 1999, pag. 143]

Lo straniero

Partito lui, ho ritrovato la calma. Ero esausto e mi sono gettato sulla branda. Devo aver dormito perché mi sono svegliato con delle stelle sul viso. Rumori di campagna giungevano fino a me. Odori di notte, di terra e di sale rinfrescavano le mie tempie. La pace meravigliosa di quell'estate assopita entrava in me come una marea. In quel momento e al limite della notte, si è udito un sibilo di sirene. Annunciavano partenze per un mondo che mi era ormai indifferente per sempre.

[Albert Camus, Lo straniero, Bompiani, 1987, pag. 84]

Don Chisciotte della Mancia

A questo punto scoprirono trenta o quaranta mulini a vento che si trovano in quella campagna, e non appena Don Chisciotte li vide, disse al suo scudiero.
- La fortuna va incamminando le nostre cose assai meglio di quanto potremmo desiderarlo, perché guarda lí, amico Sancio Panza, che ci si mostrano trenta e più smisurati giganti, con i quali ho intenzione di azzuffarmi e di ucciderli tutti, così con le loro spoglie cominceremo ad arricchirci, che che questa è buona guerra, ed è fare un servizio a Dio togliere questa mala semenza dalla faccia della terra.
- Che giganti? - disse Sancio Panza.
- Quelli che vedi là - rispose il suo padrone - dalle smisurate braccia; e ce n'è alcuni che arrivano ad averle lunghe due leghe.
- Badi la signoria vostra - osservò Sancio - che quelli che si vedono là non son giganti ma mulini a vento, e ciò che in essi paiono le braccia, son le pale che girate dal vento fanno andare la pietra del mulino.
- Si vede bene - disse Don Chisciotte - che non te n'intendi d'avventure; quelli son giganti; e se hai paura, levati di qua, e mettiti a pregare, mentre io entrerò con essi in aspra e disugual tenzone. 
E così dicendo, diede di sprone al suo cavallo Ronzinante, senza far caso a ciò che gli gridava Sancio Panza, per avvertirlo che erano certamente mulini a vento, e non giganti che nè sentiva le grida del suo scudiero Sancio, né s'accorgeva, nemmeno ora che era arrivato vicino, di ciò che erano, anzi gridava a gran voce:
- Non scappate, codarde e vili creature, che è un cavaliere solo che vi attacca.
A questo punto soffiò un pò di vento e le grandi pale cominciarono a muoversi, e don Chisciotte disse, vedendo ciò: 
- Quand'anche muoviate più braccia del gigante Briareo, me la pagherete.
Cosí dicendo e raccomandandosi ardentemente alla sua Dulcinea per chiederle che lo soccorresse in quel frangente, ben coperto dalla rotella, con la lancia in resta, spinse Ronzinante a gran galoppo e investì il primo mulino che si trovò davanti; e avendo dato un gran colpo di lancia alla pala, il vento la fece ruotare con una tal furia che fece in pezzi la lancia, trascinandosi dietro cavallo e cavaliere, che rotolò tramortito per terra. Accorse ad aiutarlo Sancio Panza, con tutta la velocità del suo asino, e quando arrivò lo trovò che non era neanche in grado di muoversi: tale era il colpo che Ronziante gli aveva dato.
- Per l'amor di Dio! - disse Sancio -. Non gliel'avevo detto io che stesse bene attento a quel ceh faceva, che quelli erano mulini a vento, e solamente chi ce li avesse avuti in testa poteva non accorgersene?
- Taci, caro Sancio - rispose Don Chisciotte -; poiché la cose della guerra sopra tutte le altre son soggette a continua vicenda; tanto più che io credo, ed è e sarà certamente cosí, che quel mago Frestone che mi ha rubato la stanza e i libri, ha convertito anche questi giganti in mulini, per togliermi la gloria di vincerli: tale è l'inimicizia che mi tiene: ma alla resa dei conti, poco varranno le sue male arti contro la bontà della mia spada.
- Ci pensi il Signore, che tutto può - rispose Sancio Panza, e lo aiutò ad alzarsi.

[Miguel de Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, Einaudi, 1994, pag 80-81]

Lettere persiane

LETTERA XXX
RICA A IBBEN, A SMIRNE

Gli abitanti di Parigi sono curiosi fino alla stravaganza. Quando arrivai, mi guardavano come se fossi calato dal cielo: vecchi, uomini, donne, bambini, tutti volevano vedermi. Se uscivo la gente era tutta alla finestra; se ero alle Tuileries, vedevo subito formarmisi intorno un cerchio: le donne stesse mi circondavano facendo una specie di arcobaleno dai mille colori; se ero a qualche spettacolo, trovavo cento occhialetti rivolti al mio viso: per farla breve, mai uomo fu tanto guardato. Qualche volta sorridevo udendo persone che non erano quasi mai uscite dalla loro camera dire tra loro: - Bisogna proprio riconoscere che ha proprio l'aria persiana. - Era una cosa straordinaria; trovavo miei ritratti dappertutto, mi vedevo moltiplicato in tutte le botteghe, su tutti i caminetti: temevano proprio di non avermi veduto abbastanza.
Tanti onori finiscono per essere di peso: non mi credevo un uomo così curioso e raro, e sebbene abbia di me stesso una buonissima opinione non mi sarei mai immaginato di mettere a rumore una grande città dove non ero conosciuto. Mi decisi così a lasciare l'abito persiano e a indossarne uno all'europea, per vedere se sarebbe restata nella mia fisionomia qualche cosa degna d'ammirazione. La prova mi fece sapere quello che realmente valevo: libero di ogni ornamento esotico mi vidi apprezzato più giustamente. Avrei avuto motivo di lagnarmi del sarto, che in un momento mi aveva fatto perdere l'attenzione e la stima pubblica: d'un tratto ricaddi nel nulla più assoluto. Qualche volta mi capitò di restare un'ora in società senza essere guardato, nè aver avuto l'occasione di aprir bocca; ma se per caso qualcuno diceva alla compagnia che ero persiano, subito intendevo intorno a me un ronzio: - Ah! Ah! il signore è persiano? che cosa straordinaria! come si fa ad essere persiano?

Parigi, il giorno 6 della luna di Scialval, 1712

[Montesquieu, Lettere persiane, BUR, 2006, pag. 103-4]

La bottega del caffè

[Atto primo, scena prima]

RIDOLFO Animo figlioli, portatevi bene; siate lesti e pronti a servir gli avventori, con civiltà, con proprietà: perché tante volte dipende il credito di una bottega dalla buona maniera di quei che servono.

TRAPPOLA Caro signor padrone, per dirvi la verità, questo levarsi di buon ora non è niente fatto per la mia complessione.

RIDOLFO Eppure bisogna levarsi presto. Bisogna servir tutti. A buon'ora vengono quelli che hanno da far viaggio, i lavoranti, i barcaioli, i marinai, tutta gente che si alza di buon mattino.

TRAPPOLA E' veramente una cosa che fa crepar di ridere, vedere anche i facchini venir a bevere il loro caffè.

RIDOLFO Tutti cercan di fare quello che fanno gli altri. Una volta correva l'acquavite, adesso è in voga il caffè.

[Carlo Goldoni, La bottega del caffè, Einaudi, 1966, pag. 17]

Candido

«So anche» disse Candide «che bisogna coltivare il proprio giardino.»
«Hai ragione» disse Pangloss; «perché quando l'uomo fu posto nel giardino dell'Eden, ci fu posto ut operaretur eum, perché lo coltivasse; il che dimostra che l'uomo non è fatto per il riposo.»
«Lavoriamo senza ragionare» disse Martin; «è l'unico modo di render la vita tollerabile.»
Tutta la minuscola compagnia condivise quel lodevole disegno; ciascuno si mise ad esercitare i propri talenti. La poca terra fruttò molto. Cunégonde in verità era ben brutta ma divenne un ottima cuoca; Paquette ricamò; la vecchia badò alla biancheria. Persino fra Giroflée si rese utile; fu ottimo falegname e divenne addirittura galantuomo; e a volte Pangloss diceva a Candide:
«Tutti gli eventi sono concatenati nel migliore dei mondi possibili; perché insomma, non t'avessero cacciato da un bel castello a pedate nel sedere per amore di madamigella Cunégonde, non fossi caduto nelle mani dell'Inquisizione, non avessi percorso l'America a piedi, non avessi dato un bel colpo di spada al barone, non avessi perduto tutte le pecore del buon paese di Eldorado, non saresti qui a mangiar cedro candito e pistacchi...»
«Ben detto» rispose Candide «ma dobbiamo coltivare il nostro orto.»

[Voltaire, Candido, ovvero l'ottimismo, BUR, 1997, pag. 182-183]

Candido, ovvero un Sogno fatto in Sicilia

Andavano spesso a Parigi. Ogni volta che avevano una vacanza che durasse più di quattro giorni: in modo da starci almeno tre giorni pieni, considerando le ore che ci volevano con l'andare in treno. Non avevano l'automobile; l'avevano come naturalmente rifiutata, abitando quella città da cui le automobili in tutta Italia dilagavano. E una delle ragioni del loro amore a Parigi - oltre quelle dell'amore all'amore, dell'amore alla letteratura, dell'amore alle piccole e vecchie cose e ai piccoli e antichi mestieri - stava nel fatto che vi si poteva ancora camminare, ancora passeggiare, ancora svagatamente andare e fermarsi e guardare. Soltanto a Parigi, per esempio, camminavano tenendosi per mano;  soltanto a Parigi il loro passo assumeva una goduta lentezza. Vi si sentivano insomma sciolti e liberi. Ed era  sì un fatto mentale, un fatto letterario: ma qualcosa c'era negli spazi, nei ritmi dell'architettura e della vita che vi si muoveva, che consentiva all'idea, e magari al luogo comune, che della città si aveva prima di conoscerla. Era una grande città piena di miti letterari, libertari e afrodisiaci  che sconfinano l'uno nell'altro e si fondono: così  come in un nudo di Courbet si sente l'interludio tra un amplesso e l'altro, la Comune e la conversazione con Baudelaire; ma era anche un insieme di paesi piccoli tra i quali scegliere, ritagliare e vivere quello che meglio ci si addice, quello in cui siamo nati o quello in cui abbiamo sognato di vivere. Piccoli paesi che si sfaccettano e ripetono la città grande; grande città che sente la campagna, che se ne alimenta e ne respira, che per emblemi la ripete. «Davanti alle botteghe sostavano dei gatti, agitavano la coda come una bandiera. Stavano fermi con gli occhi che osservavano attenti, come cani da guardia davanti ai cesti d'insalata verde e di carote gialle, di cavoli dai riflessi bluastri e di rosati ravanelli. Le botteghe sembravano orti ... Le terrazze dei caffè fiorivano di tavoli rotondi dalle gambe sottili, e i camerieri avevano l'aspetto di giardinieri, e quando versavano il caffè e il latte nelle tazze pareva annaffiassero delle bianche aiuole. Lungo i margini c'erano alberi e chioschi, pareva che gli alberi vendessero giornali. Nelle vetrine la merce danzava alla rinfusa, ma in un ordine ben preciso e sempre soprannaturale. Le guardie nelle strade andavano a passeggio, già, a passeggio, una pellegrina sulla spalla destra o sulla sinistra; che quell'indumento dovesse proteggere dalla grandine e da un acquazzone era ben strano. Tutti la portavano con una fiducia incrollabile nella qualità della stoffa o nella bontà del cielo - chi può saperlo? Non giravano come guardie, ma come della gente che non ha da fare e ha tempo per vedersi il mondo».    

[Leonardo Sciascia, Candido, ovvero un Sogno fatto in Sicilia, Einaudi, 1977, pag. 121-122]


Bouvard e Pécuchet

"Niente riflessioni! Niente riflessioni! Copiamo! Bisogna che la pagina si riempia. Che il "monumento" si compia ... uguaglianza di tutto, del bene e del male, del bello e del brutto, dell'insignificante e del caratteristico. C'è verità solo nei fenomeni."

[Gustave Flaubert, Bouvard e Pécuchet, Feltrinelli, 1998, pag. 298]

Sonetti dei mesi

D'april vi dono la gentil campagna
tutta fiorita di bell'erba fresca;
fontane d'acqua, che non vi rincresca;
donne e donzelle per vostra compagna;

ambianti palafren', destrier di Spagna
e gente costumata alla francesca;
cantar, danzar alla provenzalesca
con istormenti nuovi della Magna.

E d'intorno vi sian molti giardini,
e giachito vi sia ogni persona;
ciascun con reverenza e inchini

a quel gentil ch'ho dato la corona
de pietre preziose, le più fini
c'ha 'l Presto Gianni o re di Babilonia.

[Folgóre da San Gimignano, Sonetti dei mesi (D'april) in Gianfranco Contini, Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni, 1985, pag. 121]

Il francobollo egiziano

I luoghi dove i pietroburghesi si danno convegno, consacrati dal tempo, dal color acquamarina del cielo e dalla Neva, non sono poi così vari. Li si potrebbe segnare con qualche crocetta sulla mappa della città, in mezzo ai giardini dalle chiome grevi e alle strade di cartapesta.

[Osip Mandel’štam,  Il francobollo egiziano in Il rumore del tempo e altri scritti, Adelphi, 2012, pag. 102]

Il rumore del tempo

Non è di me  che voglio parlare: voglio piuttosto seguire l’epoca, il rumore e il germogliare del tempo. La mia memoria è nemica di tutto ciò che è personale.

[Osip Mandel’štam,  Il rumore del tempo in Il rumore del tempo e altri scritti, Adelphi, 2012, pag.  68]

Tentativo di esaurimento di un luogo parigino

Ci sono molte cose a Place Saint-Sulpice, ad esempio: il municipio, un ufficio del Ministero delle finanze, un commissariato, tre caffè di cui uno è anche una rivendita di tabacchi, un cinema, una chiesa dove hanno lavorato  Le Vau, Gittard, Oppenord, Servandoni e Chalgrin e che è dedicata a un cappellano di Clotario II che fu vescovo di Bourges dal 624 al 644 e che si festeggia il 17 gennaio, un editore, un’impresa di pompe funebri, un’agenzia di viaggi, una fermata d’autobus, un sarto, un albergo, una fontana decorata con le statue di quattro grandi oratori cristiani (Bosseut, Fénelon, Fléchier e Massillon), un’edicola, un negozio di articoli sacri, un parcheggio, un istituto di bellezza, e ancora molte altre cose.
Molte, se non la maggioranza, di queste cose sono state descritte, fotografate, raccontate o segnalate. Il mio proposito nelle pagine che seguono è stato piuttosto di descrivere il resto: quello che generalmente non si nota, quello che non si osserva, quello che non ha importanza: quello che succede quando non succede nulla, se non lo scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole.

[Georges Perec, Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, Voland, 2011, pag. 7]