Alle sette del mattino è ancora tutto in ordine

Novembre, mese dei morti, tutti i santi, tutti i morti; nebbioline vaghe e incerte che si aggirano sui campi come anime inquiete; il fiume che scorre via in piena, macchiettato di foglie gialle, che marciscono nelle pozze di acqua e fanghiglia; i faggi che sono di fiamma un giorno, e quello dopo se ne stanno inzuppati e spenti; il cortile della fattoria pieno di fango e di pozzanghere; i boschetti che lasciano tristemente cadere gocce di acqua e foglie; l'aria soffice, umida e dolce nelle macchie dei pini; il crepuscolo che oscura la collina; e gli stivali di gomma e gli impermeabili di plastica che ingombrano il portico.

[Eric Malpass, Alle sette del mattino è ancora tutto in ordine, Bompiani, 2001, pag. 62]

Canzoniere

Zephiro torna, e 'l bel tempo rimena,
e i fiori et l'erbe, sua dolce famiglia,
et garrir Progne, et pianger  Philomela,
et primavera candida e vermiglia.

Ridono i prati, e 'l ciel si rasserena,
Giove s'allegra di mirar sua figlia;
l'aria, et l'acqua, et la terra è d'amor piena;
ogni animal d'amar si riconsiglia.

Ma per me, lasso, tornano i più gravi
sospiri, che del cor profondo tragge
Quella ch' al Ciel se ne portò le chiavi;

et cantar augelletti, et fiorir piagge,
e 'n belle donne oneste atti soavi
sono un deserto, et fere aspre e selvagge.

(CCCX)

[Francesco Petrarca, Canzoniere, Milano, Mondadori, 1985, pag. 456]

Bar Sport

Al bar Sport non si mangia quasi mai. C'è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica. Sono paste ornamentali, spesso veri e propri pezzi d'artigianato. Sono lì da anni, tanto che i clienti abituali, ormai, le conoscono una per una. Entrando, dicono: "La meringa è un po' sciupata, oggi. Sarà il caldo". Oppure: "È ora di dar la polvere al krapfen". Solo, qualche volta, il cliente occasionale osa avvicinarsi al sacrario. Una volta, ad esempio, entrò un rappresentante di Milano. Aprì la bacheca e si mise in bocca una pastona bianca e nera, con sopra una spruzzata di quella bellissima granella duralluminio che sola contraddistingue la pasta veramente cattiva. Subito al bar si sparse la voce: "Hanno mangiato la Luisona!" La Luisona  era la decana delle paste, e si trovava nella bacheca dal 1959. Guadando il colore della sua crema i vecchi riuscivano a trarre le previsioni del tempo. La sua scomparsa fu un colpo durissimo per tutti. Il rappresentante fu invitato a uscire nel generale disprezzo. Nessuno lo toccò, perché il suo gesto malvagio conteneva già in sé la più tremenda delle punizioni. Infatti fu trovato appena un'ora dopo, nella toilette di un autogrill di Modena, in preda ad atroci dolori. La Luisona si era vendicata.
La particolarità di queste paste è infatti la non facile digeribilità. Quando la pasta viene ingerita, per prima cosa la granella buca l'esofago. Poi, quando la pasta arriva al fegato, questo la analizza e rinuncia, spostandosi  di un colpo a sinistra e lasciandola passare. La pasta, ancora intera, percorre l'intestino e cade a terra intatta dopo pochi secondi. Se il barista non ha visto niente, potete anche rimetterla nella bacheca e andarvene.

(La Luisona)

[Stefano Benni, Bar Sport, Feltrinelli, 1997, pag. 13]

Il giovane Holden

Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com'è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d'infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio padre. Carini e tutto quanto - chi lo nega - ma anche maledettamente suscettibili. D'altronde non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e compagnia bella. Vi racconterò soltanto le cose da matti che mi sono capitate verso Natale, prima di ridurmi cosí  a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia. Niente di più di quel che ho raccontato a D.B., con tutto che lui è mio fratello e quel che segue. Sta a Hollywood, lui. Non è poi tanto lontano da questo lurido buco, e viene qui a trovarmi praticamente ogni fine settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quando ci andrò il mese prossimo, chi sa. Ha appena preso una Jaguar. Uno di quei gingilli inglesi che arrivano sui trecento all'ora. Gli è costata uno scherzetto come quattromila sacchi o giù di lí. E' pieno di soldi, adesso. Mica come prima. Era soltanto uno scrittore in piena regola, quando stava a casa. Ha scritto quel formidabile libro di racconti, Il pesciolino nascosto, se per caso non l'avete mai sentito nominare. Il più bello di quei racconti era Il pesciolino nascosto. Parlava di quel ragazzino che non voleva far vedere a nessuno il suo pesciolino rosso perché l'aveva comprato coi soldi suoi. Una cosa da lasciarti secco. Ora sta a Hollywood, D.B., a sputtanarsi. Se c'è una cosa che odio sono i film. Non me li nominate nemmeno.
Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che lasciai l'Istituto Pencey. L'Istituto Pencey è quella scuola che sta ad Agerstown in Pennsylvania. Probabile che ne abbiate sentito parlare. Probabile che abbiate visto gli annunci pubblicitari, se non altro. Si fanno la pubblicità su un migliaio di riviste, e c'è sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una siepe. Come se a Pencey non si facesse altro che giocare a polo tutto il tempo. Io di cavalli non ne ho visto neanche uno, né lí, né nei dintorni. E sotto quel tipo a cavallo c'è sempre scritto: «Dal 1888 noi forgiamo una splendida gioventù dalle idee chiare». Buono per i merli. A Pencey non forgiano un accidente, tale e quale come nelle altre scuole. E io laggiù non ho conosciuto nessuno che fosse splendido e dalle idee chiare e via discorrendo. Forse due tipi. Seppure. E probabilmente erano già cosí prima di andare a Pencey.

[Jerome David Salinger, Il giovane Holden,  Einaudi, 1961, pag. 3-4]

Jacques il fatalista

Come si erano incontrati? Per caso, come tutti. Come si chiamavano? E che ve ne importa? Da dove venivano? Dal luogo più vicino. Dove andavano? Si sa dove si va? Che dicevano? Il padrone non diceva niente; e Jacques diceva che il suo capitano diceva che tutto ciò che quaggiù ci accade di bene e di male, sta scritto lassù.

IL PADRONE E’ una grande verità.
JACQUES  Il mio capitano aggiungeva che ogni pallottola che parte da un fucile ha il suo indirizzo.
IL PADRONE E aveva ragione...

[Denis Diderot, Jacques il fatalista e il suo padrone in Il nipote di Rameau. Jacques il fatalista, Garzanti, 1988, pag. 95]

Il nipote di Rameau

Che sia bello o brutto tempo, ogni sera verso le cinque, è mia abitudine andarmene a passeggio al Palais Royal. Sono io quel tipo sempre solo, seduto a fantasticare sulla panchina del viale d’Argenson. Mi intrattengo con me stesso a ragionare di politica, d’amore, d’arte o di filosofia. Abbandono il mio spirito ad ogni suo libertinaggio. Lo lascio completamente libero di seguire la prima idea saggia o folle che si presenti, proprio come i nostri giovani dissoluti che vediamo dietro alle cortigiane per il viale di Foy: ora ne seguono una dall’aria svagata, viso ridente, occhio vivace, il naso all’insù, poi la lasciano per seguirne un’altra, abbordandole tutte senza impegnarsi con nessuna. I miei pensieri sono le mie puttane.

[Denis Diderot,  Il nipote di Rameau in Il nipote di Rameau. Jacques il fatalista, Garzanti, 1988, pag. 3]

Esercizi di stile

Notazioni

Sulla S, in un’ora di traffico. Un tipo di circa  ventisei anni, cappello floscio con una cordicella al posto del nastro, collo troppo lungo, come se glielo avessero tirato. La gente scende. Il tizio in questione si arrabbia con un vicino. Gli rimprovera di spingerlo ogni volta che passa qualcuno. Tono lamentoso, con pretese di cattiveria. Non appena vede un posto libero, vi si butta. Due ore più tardi lo incontro alla Cour de Rome, davanti alla Gare Saint-Lazare. È con un amico che gli dice. «Dovresti far mettere un bottone in più al soprabito». Gli fa vedere dove (alla sciancratura) e perché.

Onomatopee

A boarrrdo di un auto (bit bit, pot pot!) bus, bussante, sussultante e sgangherato della linea S, tra strusci e strisci, brusii, borbotii, borrrborigmi e pissi pissi bao bao, era quasi mezzodin-dong-ding-dong, ed ecco, cocoricò un galletto col platò (un Apollo col cappello a palla di pollo) che frrr! Piroetta come un vvortice vverso un tizio e rauco ringhia abbiando e sputacchiando «grr grr, arf arf, harffinito di farmi ping pong ?!»
Poi guizza e sguazza (plaffete) su di un sedile e sosspiiira rilassato.
Al rintocco e alla scampanar della sera, ecco-co cocoricò il galletto che (bang!) s’imbatte in un tale balbettante che farfuglia del botton del paletò. Toh! Brrrr, che brrrividi!!!

Ampolloso

Quando l’aurora dalle dita di rosa imparte i suoi colori al giorno che nasce, sul rapidissimo dardo  che per le sinuose correnti dell’Esse falcatamente incede, grande d’aspetto e dagli occhi tondi come toro di Bisanto, lo sguardo mio di falco rapace, quale Indo feroce che con l’inconscia zagaglia barbara per ripido sentiero alla pugna s’induce, mirò l’uman dal collo astato, giraffa piè veloce, e dall’elmo di feltro incoronato di una bionda treccia.
La Discordia funesta, invisa anco agli dèi, dalla bocca nefasta di odiosi dentifrici, la Discordia venne a soffiare i miasmi suoi maligni tra la giraffa dalla bionda treccia e un passegere impudente, subdola prole di Tersite. Disse l’audace figlio di giraffa . «O tu, tu non caro agli Olimpi, perchè poni le ugne tue impudiche sulle mie alata uose?» Disse, e alla pugna si sottrasse, e sedde.
La sera ormai morente, presso la Corte candida di marmi, il giraffato pié veloce ancora vidi, accompagnato da un sulfureo messo d’eleganze, e ad altissima voce, che colpì l’acutissimo mio orecchio, questi vaticinò sul peplo, di cui l’audiente si avvolgeva: «Tu dovrai – disse quello – avvolgere ai tuoi lombi la tua toga, un diamante aggiungendo a quella schiera, che la rinserra!»

[Raymond Queneau, Esercizi di stile, Torino, Einaudi, 1983, pag. 3, 51, 89]

Satiricon

«Come? Ma allora non sapete da chi si va oggi! Da Trimalcione, uno che scoppia di soldi, e in sala da pranzo ha un orologio e un trombettiere, piazzato lì apposta per ricordargli via via quanto tempo della sua vita se n'è andato».  

[Petronio Arbitro, Satiricon, Milano, Garzanti, 1999, pag. 35]

L'Isola del Tesoro

Eravamo entrati nella zona degli alisei per prendere il vento dell'isola che dovevamo raggiungere (non mi è concesso di spiegarmi meglio) e correvamo verso di essa facendo buona guardia giorno e notte. Era all'incirca l'ultimo giorno del nostro viaggio di andata, volendo fare il computo più abbondante; durante la notte, o al più tardi l'indomani mattina, avremmo dovuto avvistare l'Isola del Tesoro. Navigavamo con la prua a sud-sudovest con una brezza costante di traverso e mare calmo. L'Hispaniola rullava regolarmente, abbassando di tanto in tanto il bompresso con una buffata di spruzzi. Tutte quante le vele, in alto e in basso, portavano; e poiché la fine della prima parte della nostra spedizione era così vicina, eravamo tutti di ottimo umore.
Era appena tramontato il sole e io, smesso di lavorare, mi dirigevo verso la mia cuccetta, quando mi prese voglia di una mela. Corsi in coperta. I marinai di gaurdia erano tutti a prua a spiare l'apparire dell'isola. Il timoniere stava attento alle vele e intanto fischiettava dolcemente. A parte il fruscio delle acque contro la prua e i fianchi della nave, era questo l'unico suono che si udisse.
Entrai nel barile con tutto il corpo, e trovai che mele non ve n'erano quasi più; ma stando lì dentro al buio, cullato dal rullio della barca e dal mormorio dell'acqua mi sarei presto addormentato se qualcuno dalla pesante corporatura non fosse venuto a sedersi rumorosamente contro. Il barile ebbe una scossa quand'egli vi urtò con le spalle, e io stavo per saltar fuori, allorché costui cominciò a parlare. Era la voce di Silver; mi bastò udire dieci parole, che per tutto l'oro del mondo non sarei più uscito; e rimasi lì, tutto tremante, in ascolto, preso tra curiosità e spavento; poiché da quelle poche parole avevo capito che la vita di tutti i galantuomini a bordo dipendeva unicamente da me.

[Robert Louis Stevenson, L'Isola del Tesoro, Milano, Mondadori, 1994, pag. 69-70]

Expo 58

Proprio allora Thomas fece una curva sulla strada ed esso apparve alla vista: l'Atomium. Emily ed Anneke stavano pedalando insieme, fianco a fianco, una ventina di metri davanti a lui, e i luccicanti globi del monumento surreale di André Waterkeyn erano tra loro, incorniciati da loro. Il sole della sera brillava e rimbalzava dalle lisce, massicce curve ed ellissi della struttura che s'impennava arrogante al di sopra delle cime degli alberi del parco dell'Expo. Thomas smise di pedalare e proseguì a ruota libera, a bocca aperta; non c'era dubbio, adesso, su cosa rappresentava quel quadro: era il suo futuro: seducente, invitante, prima inimmaginabile nelle sue forme e contorni, illuminato su tutti i lati da luccicanti, chiaroveggenti fasci di luce, e soprattutto moderno: moderno in modo irresistibile e senza precedenti.Un futuro che adesso avrà l'opportunità di condividere vuoi qui in Europa, con Anneke, vuoi forse nella lontana America, con la compagnia più burrascosa e vivace di Emily. 
E dunque era stabilito. Non gli restava altro da fare che una semplice scelta.

[Jonathan Coe, Expo 58, Feltrinelli, 2013, pag. 218]

Storia di un quadro

Verifiche successive, condotte con estrema diligenza, non tardarono a dimostrare che la maggior parte dei quadri di Hermann Raffke erano proprio falsi, come, per lo più, sono falsi i particolari di questo racconto inventato, concepito per il solo piacere, e l’esclusivo brivido, della finzione.

[Georges Perec, Storia di un quadro, Milano, Rizzoli, 1990]

Il paradiso degli orchi

Un'ultima domanda, signor Malaussène. In cosa consiste esattamente la sua mansione, al Grande Magazzino? Non emerge molto chiaramente dalla sua deposizione.
E non a caso...
Curiosamente, proprio in questo istante prendo coscienza dell'arredamento. È in stile impero, l'ufficio del commissario di divisione Rabdomant. Dalle sedie traballanti dall'aspetto pseudo-romano al servizio da caffè marchiato con la maiuscola imperiale N, per non parlare del divano Récamier che brilla discreto accanto alla libreria di mogano, tutto è immerso nella luce vegetale di  una tappezzeria color spinaci costellata di piccole api d'oro. Se cercassi bene, scoverei sicuramente il mini-busto del mini-Corso, una riproduzione del mini-bicorno e il memoriale di Las Casas nella libreria. Sebbene non abbia alcun nesso con la domanda che lui ha appena fatto, mi chiedo se ha pagato l'arredamento di tasca sua, il commissario di divisione, o se ha ottenuto dall'amministrazione un credito speciale per rivestire i locali con i colori della sua passione. In entrambi i casi, la conclusione è una sola: quest'uomo non rientra a casa tutte le sere. Ci sta bene, qui. E chi ama la cornice, ama il lavoro.
Sgobba venticinque ore su ventiquattro, il piedipiatti. Non si può fare troppo i furbi con la reincarnazione di Fouché. Da qui la mia decisione di non mentirgli.
- Faccio il Capro Espiatorio, signor commissario.
Il commissario Rabdomant mi rimanda uno sguardo assolutamente vuoto.
Allora gli spiego che la funzione detta di Controllo Tecnico è assolutamente fittizia. Io non controllo proprio niente, poiché niente è controllabile nella profusione dei mercanti del tempio. A meno di non moltiplicare per dieci gli effettivi controlli. Dunque, quando arriva un cliente con una lamentela, vengo chiamato dall’Ufficio Reclami nel quale ricevo una strapazzata  assolutamente terrificante. Il mio lavoro consiste nel subire l’uragano di umiliazioni con un’aria così contrita, così miserabile, così profondamente disperata, che di solito il cliente ritira il reclamo per non avere il mio suicidio sulla coscienza e tutto si conclude in via amichevole, con il minimo dei danni per il Grande Magazzino. Ecco, sono pagato per questo. Profumatamente, peraltro.

[Daniel Pennac, Il paradiso degli orchi, Feltrinelli, 2004, pag. 57-58]

Uno, nessuno e centomila

Siamo molto superficiali, io e voi. Non andiamo ben addentro allo scherzo, che è più profondo e radicale, cari miei. E consiste in questo: che l'essere agisce necessariamente per forme, che sono le apparenze che esso si crea, e a cui noi diamo valore di realtà. Un valore che cangia, naturalmente, secondo l'essere che in quella forma e in quell'atto ci appare.
E ci deve sembrare per forza che gli altri hanno sbagliato; che una data forma, un dato atto non è questo e non è così. Ma inevitabilmente, poco dopo, se ci spostiamo d'un punto, ci accorgiamo che abbiamo sbagliato anche noi, e che non è questo e non è così; sicché alla fine siamo costretti a riconoscere che non sarà mai né questo né così in nessun modo stabile e sicuro; ma ora in un modo ora in un altro, che tutti a un certo punto ci parranno sbagliati, o tutti veri, che è lo stesso; perché una realtà non ci fu data e non c'è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere: e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile. La facoltà d'illuderci che la realtà d'oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall'altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d'oggi è destinata a scoprircisi illusione di domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita.

[Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, MilanoRCS editori, 2003, pag. 82]